domenica 28 ottobre 2012

FREAK SHOP

Il cattivo karma ci stava fottendo tutti come un’assassino psicopatico nascosto sotto le lenzuola, pronto a colpire e quello che ci rimaneva era solo il tempo per non impazzire del tutto. 
Avevo pubblicato un romanzo per il quale ricevevo una percentuale minima, il wineshop mi permetteva di pagare i conti dandomi al contempo tutto il tempo che mi serviva per scrivere e qualche volta riuscivo anche ad avere qualcuno al mio fianco. 
Quella era la mia Hollywood, pensai posando lo sguardo su Clara.
Studiai il suo modo di fare elettrico, mentre accendeva una sigaretta passandosi una mano tra i capelli.
Erano tutti terrorizzati dagli zingari, non ero mai riuscito a capire quella loro paura,
l’unica cosa che mi terrorizzava di quel popolo era la loro libertà.
Quella parola era come una prigione per quelli che come me erano cresciuti in cattività, avrei dovuto mollare tutto, il caldo sporco dell’estate e il freddo tenue dell’autunno, gli autobus sporchi e quella sporca città, cominciando a girare qualche altro sporco posto europeo.
Un’interrail, il coraggio, le paure, la rabbia, avevo il dannatissimo bisogno di dimostrare a me stesso di poter diventare uno zingaro. Forse allora tutti quelli stronzi dalle espressioni vacue mi avrebbero temuto. 
La libertà terrorizzava perché era come una droga, un’uomo che liberava il suo pensiero una volta, lo avrebbe fatto per sempre e questo era un dato di fatto.
  “Dici sul serio?” domandò poggiando la schiena nuda sulla testiera del letto.
Aveva un non so che di sconcertante, non sarebbe mai stata una di noi, quello era certo.
  “Come puoi cercare ispirazione in quei posti, tra quelle persone… Tra quelle donne ridotte in schiavitù. Credo che i nightclub rappresentino tutto quello che io odio.”
“Guarda che molte di loro lo fanno per diletto.”
  “Come fai a saperlo?”
“Perché le conosco.”
Non era una di noi, si riempiva la bocca com parole come “sfruttamento” o “terrore”, parole forti che dette da lei perdevano significato. Non sarebbe mai stata una di noi, un freak, non ne avrebbe mai avuto il taglio.
Si poneva come una reietta nei confronti del mondo ma col tempo i il suo fare si sarebbe smorzato e avrebbe trovato la pace, mentre io avrei continuato a riempire i miei diari da outsider nelle stanze d’albergo. Ne stavo perdendo un’altra, col tempo la cosa era divenuta indolente ma ne stavo comunque perdendo un’altra. Era una buona amante dopotutto, un’ottima amante.
Parlammo ancora, restandocene nudi fino a quando lei prese le sue cose, la sua pazzia, i suoi principii e le sue idee progressiste per poi andarsene lasciandosi dietro la porta.
Non avevo ideali, volevo semplicemente scrivere e scrivere voleva dire vivere alla giornata e chi viveva alla giornata non si poteva permettere degli ideali in quanto se ne avesse avuto occasione, avrebbe tradito perfino quelli.
Mi scrisse dopo qualche giorno descrivendomi come un pazzo egocentrico, cosa che poi non differiva tanto dalla realtà. Ero sempre riuscito a farmi odiare dalle persone senza metterci il minimo impegno, era quasi una sorta di dono; le facevo imbestialire .
Disse che se era il degrado ad ispirarmi, sarei dovuto andare a visitare le macerie dei paesi distrutti dalle bombe ma non aveva capito che la mia guerra era molto più effimera e veniva dal di dentro. Disarmare i pensieri diveniva col tempo un vero e proprio lavoro.
Non potevo prendermela con nessuno, mi ponevo male davanti alle persone ed in qualsiasi contesto riuscivo sempre a trovare le parole sbagliate, potevo usare la scusante dello zingaro ma i veri zingari erano quelli che sfottevano dal freddo in vecchie roulotte e non dei cazzoni rincoglioniti dai drammi esistenziali.
Mi alzai ed andai verso la finestra, l’autunno mi accarezzava la faccia con il suo vento sottile, era la mia città nonostante tutto e c’erano abbastanza locali, donne e librerie per ingannare il tempo; mi sentivo come un imperatore che lasciava cadere il suo sguardo sulla sua personale Roma in miniatura. Era la mia città, non il centro del mondo ma perlomeno il centro del mio di mondo.
Mi alzai dal letto per pigiare qualche nota sul pianoforte giusto per fare del rumore una musica d’intrattenimento. Il telefono squillò interrompendo l’armonia, il silenzio, la noia e il non scrivere.
Lo stridente squillare s’impadronì di tutto quello che il vuoto si portava appresso.
  ”Ehi, oggi niente storie, ci vediamo per le dieci e trenta.”
“Facciamo per le dieci e trentacinque?”
  ”Stai guardando la televisione Fede?”
“No, fingo di saper suonare il pianoforte e mi atteggio a modi musicista disadattato.”
  ”Questa dovresti scriverla.”
“Probabilmente lo farò.”
  ”A dopo .”
” Ciao.”
Avere amici fondamentalmente era come avere un buon fuoco di copertura in quella immensa trincea che era la follia notturna. Il mio scrivere era sempre stato grezzo ed istintivo, non ero mai stato in grado di farlo in modo diverso.
Per come la vedevo io l’unica cosa che doveva fare una persona con una penna in mano era il non prendersi mai sul serio, spedire i propri manoscritti e aspettare, uscire e rincasare.
Non era mai stato un qualcosa di meccanico o quant’altro, era semplicemente il guardare tutto con gli occhi di chi ancora riusciva a stupirsi di tanto in tanto.
Scrivere era andare nei posti meno raccomandati ed addormentarsi nella tana del lupo a dispetto di tutti.
Non smettevo di scrivere come non smettevo di respirare.

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